Dalla Fao a Copenhagen: il declino dei summit

Il palazzo della FaoAnche quest’anno i riflettori si sono accesi sulla fame nel mondo. Domani, quando ci sveglieremo, i fari saranno di nuovo spenti. Al di là delle azioni di sensibilizzazione, pur sempre doverose, non basta l’ormai ripetitivo summit della Fao a Roma per cambiare la situazione, soprattutto nel momento in cui la stessa modalità del summit viene messa in discussione. Dall’altra parte del mondo, con il patto di Pechino, Obama i paesi del Pacifico e Hu-Jintao, hanno già trasformato in flop l’atteso Cop15 di Copenhagen sui cui i paesi occidentali puntavano per trovare l’accordo sul clima.

Così, invece dei 44 miliardi di dollari necessari per sfamare il miliardo di persone sottoalimentate nel mondo (di cui 642 milioni in Asia e nel Pacifico e 265 milioni nell’Africa Subsahariana), ecco comparire altre cinque nuovi impegni (“I principi di Roma”) un po’ troppo generici: dallo sviluppo rurale (collegato al contrasto del “land grabbling" da parte delle multinazionali) alla collaborazione tra le strategie nazionali, dall’approccio binario al multilateralismo. L’ultimo punto poi – quello sugli investimenti economici – non è stato accompagnato da uno stanziamento definitivo. Certo, il summit non è stato privo di momenti di slancio, come il discorso di Papa Benedetto XVI: “La fame è il segnale più concreto e crudele della povertà”.

Anche l'esecutivo europeo – come hanno ribadito il suo presidente Barroso e Karel De Gucht, commissario per lo sviluppo e gli aiuti umanitari nel corso del summit Fao - ha fornito una risposta, finanziando la sicurezza alimentare tramite una serie di strumenti. Lo strumento alimentare di cui l'UE si è dotata già nel 2008 mobilita fondi aggiuntivi per 1,5 miliardi di dollari destinati a contrastare, in tempi brevi, l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari. Nei prossimi tre anni, è previsto un ulteriore stanziamento di 4 miliardi di dollari per sostenere quei paesi che hanno necessità di potenziare la sicurezza alimentare e di adeguarsi ai cambiamenti climatici.

E’ proprio il principio del multilateralismo, consolidatosi in seguito al crollo del blocco comunista, ad entrare in crisi. O forse ci eravamo soltanto illusi che con la fine della cortina di ferro le decisioni potessero essere finalmente condivise. Sono Stati Uniti, Cina e Russia i nuovi grandi decisori senza i quali non è possibile prendere alcuna risoluzione economica globale. I grandi potenti s’incontrano nell’ambito di incontri bilaterali e di tavoli tecnici mirati, come quello sul taglio degli armamenti strategici tra Medvedev e l’onnipresente Obama. E’ evidente che il G2 (Usa-Cina) sta scalzando inesorabilmente il G20. Rasmussen (premier danese e padrone di casa del summit di Copenaghen in programma dal 7 al 18 dicembre), precipitatosi di corsa a Singapore, si è limitato a prendere atto che l’atteso accordo sul clima slitterà al 2010 e verrà riconsiderato  – guarda un po’ – nell’ambito di un ulteriore summit in Messico. A tutti gli altri non resta che rimanere a guardare.
(Alessandra Flora)